Il direttore di Misna sull’Africa

Il direttore di Misna: impreparati di fronte alle rivolte dell’Africa

(Giovedì 21 Aprile 2011, da L’Eco di Bergamo)

Egitto esulta

L'Egitto esulta dopo la liberazione da Mubarak

Padre Carmine Curci, comboniano, direttore di Misna, l’agenzia di notizie costituita dai principali istituti missionari italiani, ha partecipato al forum organizzato dai Padri monfortani sul tema informazione e Africa, che si è tenuto presso l’istituto missionario a Redona.

Proprio per la rete capillare e informata di cui può disporre, Misna spesso capisce prima e meglio degli altri quello che sta succedendo in Africa e in Asia. È successo anche per le rivolte in Nordafrica?

«No, ci siamo trovati impreparati: nessuno se le aspettava. Pensavamo che solo la morte dei vari dittatori avrebbe portato a dei cambiamenti in Tunisia, Egitto Bahrein, Siria…non c’erano neppure movimenti sociali che potessero metterci sull’avviso. Ora guardiamo l’Arabia Saudita»

I fondamentalisti c’entrano?

«La religione non c’entra, sono i giovani, il 60% della popolazione che ha meno di 30 anni: hanno usato i social network e poi sono passati dal computer alla piazza. Questo è stato l’elemento rivoluzionario, il bisogno di gridare insieme il desiderio di democrazia e libertà. Un altro elemento di forza popolare in Tunisia e in Egitto è stato l’esercito».

Ma non in Libia?

«Sapevamo che da un anno si stava preparando un colpo di stato interno al gruppo ristretto della famiglia di Gheddafi. Poi le rivolte han fatto esplodere la gente della Cirenaica, la più messa da parte. Ma in Libia l’esercito è saldamente in mano ai figli di Gheddafi. La no fly zone non funziona, i tempi saranno lunghi. Non approvo la guerra in Libia. E chiedo a tutto il mondo pacifista, come mai nessuno è sceso in piazza contro i bombardamenti?».

Secondo lei come si sono comportati i media?

«I media italiani, sempre più provinciali, han fatto una gran confusione. Al Jazeera e Al Arabiya, con qualche bufala, si son messe fin dall’inizio contro i dittatori. Resta il problema se noi giornalisti siamo credibili in situazioni dove è difficile controllare le notizie. E occorre leggere i segnali. I ragazzi della rivoluzione hanno studiato, sanno usare internet; i giovani arabi non vogliono più famiglie numerose e cominciano a rompere l’idea che ci si sposa dentro al clan. Ma se ci si allarga, si comincia ad avere un’idea di stato. Questi elementi sono presenti in Egitto, Giordania, Tunisia e non li abbiamo tenuti in considerazione. Durante le manifestazioni non sono state bruciate bandiere degli Usa o di Israele: questo significa che la protesta era proprio contro i loro governi».

La primavera araba si estenderà a Sud del Sahara?

«Ci sono piccoli movimenti in Swazi, Camerun, Gabon, Zimbabwe. La gente vede la tv, si chiede perché lì e qui no? L’africano nero ci mette di più a organizzarsi, ma poi esplode».

Cosa deve fare la Chiesa?

«In Nordafrica deve essere prudente. Ma le porte delle chiese sono state aperte ai giovani. Per noi missionari è tempo di scelte, lasciare le parrocchie e impegnarci in scelte di formazione politica e comunicazione. Dobbiamo aiutare le giovani chiese a formare leader politici con la dottrina sociale della Chiesa, dobbiamo scambiarci informazioni e fare pressioni sui nostri governi perché le nuove voci abbiano spazio».

 

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